Spingere Biden a ritirarsi? Ecco uno scenario (difficile) (2024)

È cominciata subito nel partito democratico l’operazione «damage control», il contenimento dei danni dopo la débacle televisiva di giovedì sera. Joe Biden è riapparso l’indomani in un comizio elettorale in North Carolina, dove lo si è visto in una forma decisamente migliore. Quasi smagliante, visti i suoi precedenti... Ha perfino sfoggiato un po’ di autoironia. «Non sono più in giovanotto – ha detto – per constatare un’ovvietà. Non parlo con la stessa scioltezza di un tempo. Nei dibattiti non riesco più come una volta. Però so dire la verità. E so fare il mio lavoro». Chi vuole, adesso tiri un sospiro di sollievo.

Nel suo quartier generale qualcuno ricorda che di cattive partenze nei dibattiti ce ne sono state tante. Per esempio, Barack Obama nel primo duello tv contro Mitt Romney, alla campagna per la sua rielezione nel 2012, ebbe una performance davvero pessima. Lo ricordo bene anch’io perché c’ero: nella stampa accreditata che allora era autorizzata a far parte del pubblico durante il dibattito. Lo staff di Obama che parlava con noi giornalisti era piombato in un cupo pessismismo al termine di quella serata infelice. Poi Obama si riprese e vinse con un buon margine.

Tutto vero.

Del resto i duelli tv sono raramente decisivi, forse mai. La maggioranza degli americani sa già per chi voterà, gli indecisi sono pochi, da tempo diminuiscono ad ogni ciclo elettorale. Quindi non affrettiamoci a pronunciare la fine di questa campagna e a prevedere una vittoria sicura per Trump: d’altronde in questa gara fra i due candidati più impopolari della storia, anche il repubblicano è debolissimo. Però il panico che soffia in campo democratico è reale ed ha un fondamento. Giovedì sera molti americani, anche suoi simpatizzanti e ben disposti verso Biden, hanno avuto la netta senzazione che il vecchio Joe sia ormai «unfit for office», non più adatto all’altissima responsabilità di un presidente degli Stati Uniti.

Perché l'accusa di aver tradito la moglie con una p*rnostar (mentre era incinta) non funziona, contro Trump

L’unico momento in cui Biden è parso mettere in difficoltà Donald Trump, durante il loro primo duello televisivo (in teoria è previsto un bis a settembre), è stato quando lo ha accusato di avere fatto sesso con una p*rnostar mentre sua moglie Melania era incinta. «Hai la moralità di un gatto randagio», è stata la battuta di Biden. La Cnn e altri media schierati a sinistra hanno rilanciato il più possibile quella clip, sperando che possa bilanciare il resto del dibattito, in cui Biden ha esibito tutti i sintomi della sua senescenza. Eppure perfino quel fugace momento di gloria è meno efficace di quanto credano i suoi sostenitori.

Sull’accusa in sé. Nulla di nuovo, la vicenda della p*rno-star Stormy Daniels è ormai oggetto di una condanna di Trump in tribunale, dopo aver fatto la gioia dei media per anni.È difficile che possa spostare voti in modo significativo, a mio avviso. Chi sia Trump, quali siano i suoi vizi privati, gli americani lo sanno fin dagli anni Ottanta quando divenne una celebrity dei tabloid e poi il conduttore di un reality tv di successo.È uno dei volti più conosciuti del paese, da molti decenni, e non certo per la sua moralità. La sua vita mondana, le sue numerose relazioni extra-coniugali e avventure sessuali, i suoi matrimoni, il suo linguaggio sboccato e volgare, il sessismo, i dubbi sulla trasparenza e legalità di certi suoi affari: è tutto arcinoto, da sempre. Se quasi la metà degli elettori americani – e tante americane – lo hanno votato lo stesso, nel 2016 e anche nel 2020, evidentemente non è perché lo considerano un modello di virtù morali. Attaccarlo su quello non serve a granché. Se servisse, Trump non avrebbe neppure conquistato la nomination repubblicana del 2016, al suo posto Hillary Clinton avrebbe affrontato un Ted Cruz, un Jeb Bush, un Marco Rubio.

Bisogna cercare altrove le ragioni della popolarità di Trump. Alcune di queste ragioni peraltro sono difficili per Biden da attaccare visto che su diversi terreni – dazi contro la Cina; distribuzione generosa di denaro pubblico durante la pandemia; infine e tardivamente restrizioni all’immigrazione clandestina – il presidente democratico ha ripreso e fatto proprie alcune delle politiche del suo predecessore.

Attaccare Trump sulla sua moralità non è solo inefficace.È perfino pericoloso. Che dire, infatti, della moralità di un partito democratico che ha consegnato i massimi poteri di governare l’America a un uomo la cui lucidità mentale è apparsa così traballante giovedì sera? Andare a letto con una p*rnostar è più grave, che lasciare la valigetta nucleare in mano a un anziano insicuro? Nella gara etica i democratici hanno uno scheletro nell’armadio, che giovedì sera è stato esposto alla vista di tutta la nazione.

Gli appelli a ritirarsi dalla corsa (e chi non li fa)

Lo shock in campo democratico dopo la débacle di Biden è evidente. Si moltiplicano gli appelli perché il presidente ritiri la propria candidatura. Bisogna analizzare con cura questi appelli. Formano un coro assordante nei talkshow e sui giornali progressisti dove gli opinionisti amici sono nel panico (sconcertante panico, visto che lo stato di Biden era uno spettacolo pubblico da molto tempo, nella campagna del 2020 fu parzialmente nascosto grazie al Covid che impose restrizioni agli eventi pubblici). Ci sono anche dei politici democratici che cominciano a dichiarare pubblicamente il loro allarme. Per adesso mancano all’appello però i veri «pesi massimi» del partito, a cominciare da quelli che vengono considerati candidati in pectore alla successione qualora Biden faccia finalmente il passo indietro. Come si spiega questa cautela?

Per cominciare: chi può «decidere» in questo frangente così delicato? Il presidente in carica è anche il vero leader del suo partito (oltre ad aver già incassato la quasi totalità dei delegati in palio nelle primarie).

Non esiste nella storia, recente e meno recente, il precedente di un partito che abbandoni un presidente deciso a ricandidarsi. Nel 1968 il democratico Lyndon Johnson decise da solo, di diventare un presidente «senza un secondo mandato», e ritirò la candidatura alla rielezione, quando capì che la guerra del Vietnam stava affondando le sue possibilità di vittoria; non furono altri a imporgli quel passo indietro, benché avesse un rivale interno temibile come Bob Kennedy (poi assassinato). Nel 1974 il repubblicano Richard Nixon (già al suo secondo mandato) si dimise per evitare l’impeachment sullo scandalo Watergate, negoziando in segreto il successivo perdono presidenziale con il suo vice Gerald Ford che gli subentrava. Nel caso di Nixon, lo shock del Watergate aveva indotto i notabili del partito repubblicano a metterlo con le spalle al muro. Sto evocando una situazione molto diversa dall’attuale. Ma il paragone con le dimissioni di Nixon è interessante perché chiama in causa i notabili, l’establishment. Dove sono oggi? Esiste ancora nel 2024 qualcosa di simile allo «stato maggiore» repubblicano che si presentò da Nixon dandogli un aut aut?

I clan Obama, Clinton - e Biden

Di fronte alla crisi di una candidatura e al rischio di sconfitta di un leader inadeguato, chi dovrebbe scendere in campo per costringere Biden ad aprire gli occhi? Quel tipo di «nomenclatura» fatta di anziani, ex presidenti, capi parlamentari, aveva un peso ai tempi di Nixon (e anche dopo) che oggi non ha più. Se Trump sul fronte repubblicano ha rivoluzionato il partito travolgendone o soggiogandone le vecchie élite, dei fenomeni quasi altrettanto dirompenti sono accaduti nel campo democratico. Gli ex presidenti sono dei capi-clan potenti ma in parte screditati, in parte indeboliti dalle loro rivalità intestine. Mi riferisco a Bill Clinton e Barack Obama.

Il clan dei Clinton e quello degli Obama – che si combatterono aspramente nelle primarie del 2008 – ebbero un armistizio diffidente e sospettoso quando Hillary accettò di servire come segretario di Stato. Poi ci fu la disfatta di lei nel 2016, che alimentò altri sospetti e veleni incrociati. I Clinton continuano a gestire una loro macchina di potere però hanno perso tanta credibilità e guadagnato molti nemici. Obama è sottoposto a un inarrestabile declassamento sul bilancio della sua presidenza. Lui è ancora una celebrity, carismatico e abbastanza popolare, però non gli giova una vita post-Casa Bianca in cui sembra frequentare soprattutto miliardari. La sua politica estera è ormai considerata un susseguirsi di disastri anche dalla sinistra.È una delle ragioni per cui Michelle non è affatto quell’asso nella manica che molti si ostinano a pensare. Dal 2020 in poi, al clan dei Clinton e al clan degli Obama è subentrato il nuovo clan dei Biden, anche questo ormai assai potente (occupare la Casa Bianca dà molti vantaggi), e anche questo gonfio di sospetti rancori risentimenti (per il modo in cui Obama-Clinton congiurarono a impedirgli di candidarsi nel 2016).

«E al posto mio, chi ci mettete?»

Altri centri di potere in seno al partito democratico? La ex presidente della Camera Nancy Pelosi era potentissima ma è in semi-pensione e a 84 anni è perfino più anziana di Biden! Il capogruppo al Senato, Chuck Schumer, è un giovincello al confronto (73 anni). Insieme questi due stagionati veterani potrebbero recarsi in delegazione da Biden per metterlo di fronte alla dura verità? Magari spalleggiati da alcuni mega-finanziatori del partito, selezionati fra i banchieri di Wall Street e i multi-miliardari digitali della West Coast (segreto di Pulcinella: i poteri forti del capitalismo americano da tempo distribuiscono più soldi alla sinistra che alla destra, anche se qualcosa sta cambiando per «l’effetto Gaza»). Sì, potrebbero provarci, benché Joe sia testardo e non necessariamente sensibile alle loro argomentazioni. Peraltro questa mossa si esporrebbe all’accusa etica di cui sopra: cioè di aver lasciato l’America (e il mondo) nelle mani di un vegliardo non più adeguato, del quale solo ora si «scopre» la fragilità perché rischia di fargli perdere l’elezione.

Un cambio in corsa forse è il male minore, tuttavia significa fornire nuovi argomenti a Trump: «Guardate chi vi ha governato negli ultimi quattro anni, era un incapace e lo sapevamo tutti, ma il partito democratico ha fatto finta di niente fino all’ultimo».

Vado avanti con lo scenario dei notabili + establishment che tentano il colpo di mano, la pressione in extremis su Biden. In modo da superare le sue resistenze, costoro hanno un solido piano alternativo da proporgli? Quale? Immaginiamo il duo Pelosi-Schumer in visita alla Casa Bianca, accompagnato da qualche munifico donatore tipo Michael Bloomberg e George Soros. Che discorso dovrebbero tenere, che scenario dovrebbero suggerire a Biden? «Sei stato un grande presidente. Ci hai liberato dall’incubo di un Trump bis nel 2020. Hai governato bene, hai salvato la democrazia americana da un aspirante autocrate responsabile per l’assalto del 6 gennaio 2021 al Congresso. Hai tenuto insieme le nostre alleanze internazionali di fronte alle sfide dei nostri nemici in Ucraina e in Medio Oriente. Sarai stato un presidente per un solo mandato, come in fondo davamo tutti per scontato alla tua prima nomination nel 2020, vista l’età. Ti ritiri in bellezza, circondato dall’affetto e dalla gratitudine di tutta la base democratica». (Alcune di queste affermazioni sono pietose bugie, ma è così che si fa).

Domanda di Biden: «E al posto mio chi ci mettete, contro Trump?»

Il problema Kamala, e non solo

Apriti cielo. Qui comincia una serie di altri problemi. Kamala Harris, vicepresidente, è «next in line» come si suol dire: è la prossima in fila, tocca a lei. C’è un ordine gerarchico della successione. I vicepresidenti in America solitamente servono a poco, quasi a nulla. Ma se viene meno per qualche ragione un presidente, il vice è lì per sostituirlo.

Ai sensi delle regole elettorali, in realtà, Kamala Harris non ha il diritto automatico a subentrare a Biden qualora lui si ritiri prima della convention di agosto a Chicago (i delegati delle primarie hanno promesso di sostenere Biden come candidato alla presidenza, non lei). Però c'è una sorta di primogenitura implicita, tanto più per le caratteristiche «storiche» di questa vice che furono celebrate in occasione della sua nomina. La prima donna! E per di più appartenente a ben due minoranze etniche!

Ora le chance di Kamala Harris di battere Trump sono, almeno sulla carta, perfino inferiori a quelle di Biden. Lei nei sondaggi riesce ad essere ancora più impopolare del vecchio Joe. Un record. Attribuibile per lo più alla scarsa qualità della Harris. Il problema Kamala non nasce per caso.È la risultante di una deriva verso la «politica identitaria», quella che ha trasformato la democrazia americana in una polveriera di tribù etniche, aizzate a coltivare vittimismi recriminazioni e richieste di risarcimenti. Donna, di colore (figlia di un afro-giamaicano e di una indiana), nel 2020 aveva l’identikit perfetto per placare l’ala sinistra del partito e farle digerire la candidatura di un moderato centrista come Biden.

La Harris è implosa subito, scontentando chiunque: la sinistra radicale, perché lei è una centrista su dossier cruciali come l’immigrazione; tutti gli altri per la sua petulante mediocrità. Ora però Kamala sta lì, inamovibile, un macigno sulla strada di qualsiasi regìa di notabili + establishment che voglia scenografare una convention alternativa in agosto a Chicago. Forzarle la mano perché si tiri indietro pure lei, dopo la rinuncia di Biden? Equivarrebbe a scatenare un processo contro i vertici democratici per sessismo e razzismo. Autogol. Rimediabile, secondo alcuni, solo candidando un’altra donna di colore. Tanti auguri. Sarebbe la conferma della deriva identitaria e tribale, la consegna definitiva del partito democratico a Black Lives Matter, #MeToo e la comunità Lgbtq+.

La ragione per cui non credo in Michelle Obama è duplice. Da una parte perché non ci crede lei stessa: sa che non ci si improvvisa leader politici a quattro mesi da un’elezione presidenziale americana, uno dei test più logoranti per un essere umano. Dall’altra perché la scelta di Michelle significherebbe confermare che i dem sono il partito di tutte le minoranze, in un’America dove ancora quasi il 60% degli elettori sono bianchi; e perfino black e latinos danno segni crescenti di disaffezione dalla politica woke delle identità tribali. Anche ammesso che qualcuno abbia il coraggio la forza e l’abilità politica per: 1) piegare le resistenze di Biden; 2) eliminare pure Kamala.

Gavin o Gretchen?

Passiamo al capitolo successivo. Come gestire la convention di Chicago a metà agosto tirando fuori dal cappello la candidata o il candidato miracolosi? Il nome magico è quello di Gavin Newsom, governatore della California? O invece è quello di Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan? Butto lì quei due nomi non per caso. Da un lato sono tra quelli più gettonati quando si immaginano le alternative a Biden.

D’altro lato incarnano le due anime del partito democratico. Newsom governa una California che ha il record della pressione fiscale e il record degli homeless, nonché soffre di un esodo di popolazione verso Stati come Texas e Florida (repubblicani). Non sembra rappresentare una ricetta vincente. Però comanda lo Stato più popoloso e più ricco, un serbatoio di voti e di finanziamenti elettorali per i progressisti. Anche se Newsom personalmente non è un estremista, la California è stata un laboratorio di esperimenti molto radicali che soddisfano gli ideologhi dell’ala militante; è un bersaglio ideale per i repubblicani. La Whitmer, al contrario, è l’anima democratica del Mid-West, più moderata e pragmatica, più vicina alla classe operaia. Di conseguenza scatenerebbe le ostilità dell’ala radicale, a cominciare dalla cosiddetta Squad: le parlamentari di colore guidate da Alexandria Ocasio-Cortez. C’è un partito democratico che vuole abolire la polizia di frontiera; ce n’è uno che vuole continuare a costruire il Muro di Trump col Messico. La resa dei conti fra queste due anime fu rinviata miracolosamente nel 2020 grazie a Biden. Da allora lui si è convinto di essere un salvatore, e insostituibile in quel ruolo. Bisogna che qualcuno gli dia prove concrete del contrario.

29 giugno 2024

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